Lettera22
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lunedì 6 maggio 2013
BANGLADESH - C'è un po' di made in Italy nel crollo.
C'è
una data che incastra un pezzo di Italia nel crollo del palazzo di
Dhaka dove dieci giorni fa più di 550 persone sono morte e dove alacri
fabbriche tessili lavoravano al servizio della moda di regioni lontane.
C'è una data, il 23 marzo del 2013 - un mese esatto prima del crollo del
Rana Plaza - che inchioda il Gruppo Benetton alle sue responsabilità.
Una data su una nuova bolla commerciale che, accanto ad altri nuovi
documenti, si aggiunge a quella che fu trovata giorni fa tra le macerie
del palazzo imploso ma che Benetton aveva liquidato come «one shot»,
acquisto spot dalla New Wave, fabbrica bangladeshi di indumenti. Anzi,
Benetton dichiarava che quella ditta, su cui si erano già addensate nubi
e dubbi, non era più tra quelle di cui si serviva. Una presa di
distanze sbugiardata due volte. Col primo documento dopo che Benetton
aveva negato di aver mai lavorato con le fabbriche coinvolte nel crollo.
Una seconda volta - dopo la prima ammissione - ora che sono emersi
nuovi documenti, chissà se gli ultimi di una brutta vicenda cui ora
l'azienda trevigiana è chiamata a rispondere: ai lavoratori del
Bangladesh, che la pubblicistica più moderata definisce «schiavi», e ai
clienti degli oltre 5 mila negozi di un colosso noto per le pubblicità
con bimbi multietnici stretti felicemente negli United Colors of
Benetton, marchio diventato provocatoriamente famoso con gli scatti di
Oliviero Toscani (che ha interrotto la collaborazione nel 2000). Quei
documenti li hanno trovati gli uomini della Bangladesh Garments and
Industrial Workers Federation e del Bangladesh Centre for Worker
Solidarity, due sigle sindacali (la prima del Bangladesh, la seconda che
fa capo all'American Federation of Labor-Congress of Industrial
Organizations) che ancora stanno scandagliando le macerie. Una delle
foto mostra chiaramente un foglio nel quale vengono contestati alcuni
capi: bottoni, strappi, sporco. In alto a sinistra il nome dell'azienda
fabbricante, la New Wave, e il nome del cliente, Benetton. A destra la
data, il 23 marzo del 2013, 7 del pomeriggio. Negli altri documenti, ci
sono bolle col nome Benetton o intestate alla società indiana Shahi
Exports Pvt che citano Benetton, una «scheda controllo misure
produzione» (in italiano) con alcune indicazioni per la manifattura di
magliette riconducibile a Benetton e altro ancora. Nell'insieme dei
documenti (l'ordine di cui il manifesto ha scritto il 30 aprile e quelli
odierni), il coinvolgimento di Benetton è evidente. E la data di uno
dei documenti che riproduciamo rivela quanto negato dalla società: se il
23 marzo, a un mese dal crollo, si contestava la fattura di certi
abiti, come può dire l'azienda trevigiana che New Wave era ormai fuori
dalla lista dei fornitori? Quelle fotografie sono state passate
all'International Labour Rights Forum, un'organizzazione con base a
Washington che difende i diritti dei lavoratori nel mondo e con meno
peli sulla lingua dell'Ilo, l'agenzia dell'Onu per il lavoro. È stato il
Ilrf a passarli a sua volta a un giornalista dell' International
Business Times e a farli così arrivare anche sul tavolo della campagna
Abiti Puliti, che in Italia ha per prima sollevato il caso Benetton e
reso noto il primo documento che la coinvolgeva. Ora le immagini di quei
documenti sono a disposizione dei lettori de il manifesto e indicano
chiaramente date, ordini, tipo di confezione. Carta, come si dice, che
canta e che canta una brutta musica. Una musica cui Benetton dovrebbe
rispondere con un controcanto meno equivoco rispetto a quanto fatto
sinora, prima negando, poi parlando di uno, massimo due ordini forse
addirittura da addebitare a una sussidiaria. Un modo per stare lontani
da una responsabilità che chiede due risposte: se Benetton non debba
concorrere al fondo di solidarietà che alcune aziende hanno già
sottoscritto che ripaghi almeno in parte le famiglie delle vittime. Se
non debba spiegare chiaramente se intende firmare e quando il Bangladesh
Fire and Building Safety Agreement promosso dall'International Labor
Rights Forum e da Abiti puliti in Italia. Un accordo che impegna le
aziende straniere al controllo sulla salute e la sicurezza degli stabili
con verifiche pagate di tasca propria. In Bangladesh la magistratura va
avanti con le indagini mentre le piazze si riempiono di una nuova
fiumana di persone (ieri a Dhaka è stata la volta della coalizione di 18
partiti guidata dall'opposizione del Bangladesh Nationalist Party, oggi
tocca agli islamisti del Hefajat-e-Islam Bangladesh) tra le quali, a
parte le polemiche politiche tra partiti (il Paese è guidato dalla laica
Lega Awami), il dramma del Rana Plaza è uno dei grandi temi che le
organizzazioni di massa stanno affrontando. Intanto ieri a Treviso, al
termine di un incontro col giurista Ugo Mattei in piazza Aldo Moro, gli
attivisti del collettivo Ztl Wake Up hanno dato vita a un blitz contro
la Benetton di piazza Indipendenza con lanci di vernice e uno striscione
con scritto: «Dacca, Bangladesh, United Colors of Benetton».
Inequivocabile.
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