Sawan Masih è un cristiano condannato a morte in
Pakistan con l’accusa di blasfemia. La vicenda risale al 7 marzo del
2013, quando un giovane musulmano accusò Sawan Masih, abitante della
baraccopoli cristiana di Joseph Colony di Lahore, di avere diffamato il profeta Maometto.
Il ragazzo si è difeso in tribunale sostenendo che l’ “amico” islamico
con cui ha avuto il litigio l’avrebbe messo nei guai per prevalere in
una disputa su questioni personali e materiali .
La notizia dell’insulto blasfemo nel marzo del 2013 scatenò la furia
di circa 3.000 musulmani, che attaccarono Joseph Kolony, dove bruciarono
un centinaio di abitazioni, per lo più poverissime baracche. Nessuno
degli assalitori è stato condannato o rinviato a giudizio.
Ieri la sentenza dell’Alta Corte di Lahore che ha condannato il
giovane alla pena capitale. L’avvocato difensore ha promesso che
presenterà appello.
Amnesty International ha invitato immediatamente le autorità pakistane a rilasciare Masih: “Questa è una parodia di giustizia – ha detto David Griffiths, vice direttore di Amnesty International per l’Asia ed il Pacifico -. Ci sono serie preoccupazioni per l’imparzialità di questo processo e di certo non basta una lite tra amici per condannare a more qualcuno. Savan Masih va rilasciato subito e senza condizioni”.
Il Pakistan ha 180 milioni di abitanti, il 97% dei quali musulmani con una piccola minoranza cristiana del 2%
circa. La legge sulla blasfemia permette di condannare
indistintamente, con pene che arrivano a quella capitale, le offese a
qualunque religione riconosciuta. Una legge, difesa strenuamente dai
fondamentalisti, dal clero e da molti islamici, e che punisce anche una semplice offesa verbale
o un’opinione espressa in una qualsiasi conversazione. Una legge
accusata dai detrattori di essere strumento in mano a chiunque per
ricattare qualcun altro o per farsi valere in una disputa.
Un recente rapporto del governo statunitense afferma che il Pakistan
usa la propria legislazione anti-blasfemia più che in qualsiasi altro
Paese del mondo. Il risultato è di 14 persone nel braccio della morte –
anche se vige ancora dal 2008 una moratoria sulle impiccagioni – e altre
19 condannate all’ergastolo.
Per Amnesty International la vaghezza della legga insieme ad
indagini poco accurate ha promosso un clima da vigilantes nel Paese,
specialmente nel Punjab.
Nessun commento:
Posta un commento