Hanifa Safi, direttrice del ministero per gli Affari
femminili della provincia orientale di Laghman, assassinata venerdì
scorso a Mehtarlam da una bomba collocata sotto il veicolo su cui
viaggiava, è l’ultima di una lunga serie di attiviste che hanno pagato
con la vita l’impegno in favore dei diritti delle donne in Afghanistan (sotto una manifestazione in difesa delle vittime di abusi e violenza a Kabul).
Volevano colpirla, Hanifa, per far capire che nell’Afghanistan di
oggi, così come in quello di ieri e purtroppo, forse anche in quello di
domani, non c’è spazio per i diritti delle donne e non c’è scampo per
chi li promuove e protegge.
Saranno stati i talebani, come si sono immediatamente affrettate ad
affermare le autorità provinciali di Laghman. O sarà stato qualche altro
gruppo armato, o uno dei signori della guerra legati al governo.
Hanifa,dicevo, è solo l’ultima vittima della guerra senza fine contro
le donne in Afghanistan. Ne voglio ricordare alcune altre, uccise
proprio a causa del loro impegno in favore dei diritti umani.
Safia Amajan, una collega di Hanifa, direttrice del ministero per gli Affari femminili della provincia di Kandahar, assassinata nel 2006.
Zakia Zaki,
direttrice di “Radio Pace”, un’emittente della provincia di Parwan,
messa a tacere per sempre nel 2007 dopo che dai suoi microfoni aveva più
volte attaccato i signori della guerra e i talebani.
Malalai Kakar, capo dell’unità di polizia di Kandahar incaricata di contrastare la violenza sulle donne, uccisa nel 2008.
Sitara Achekzai, per i talebani una “spia degli Americani” ma in realtà esponente del consiglio provinciale di Kandahar, ammazzata nel 2009.
Poi ci sono quelle, ancora più numerose, che sono “solo” rimaste ferite: come Fawzia Kofi,
parlamentare nazionale, scampata a un attentato mortale mentre era in
viaggio da Jalalabad a Kabul nel marzo 2010; e, appena un mese dopo, Nida Khyani, una delle poche donne presenti nel consiglio provinciale di Baghlan.
Hanifa è stata assassinata meno di una settimana dopo la Conferenza
internazionale dei donatori, svoltasi a Tokyo l’8 luglio e di cui
avevamo parlato in questo blog.
Avevamo messo in evidenza come i diritti delle donne fossero a rischio,
facilmente sacrificabili nel negoziato coi talebani e poco considerati
nel processo di trasferimento delle responsabilità in materia di
sicurezza dalla forza internazionale a quella afgana.
A Tokyo, il presidente Karzai ha incassato la promessa di 16
miliardi di dollari di aiuti per i prossimi quattro anni e si è
impegnato a costruire uno stato dalle solide fondamenta, basato “sullo
stato di diritto, sull’indipendenza del potere giudiziario e sul buon
governo”. Parole destinate a suonare vuote, se non saranno
seguite subito da indagini approfondite e a tutto campo per assicurare
alla giustizia i responsabili dell’assassinio di Hanifa e per porre fine
alla violenza contro le donne in tutto il paese.
L’Italia ha condannato l’assassinio di Hanifa: con un tweet del
ministro degli Affari esteri Terzi. C’è da sperare che a queste prime
140 parole ne seguano altre, con strumenti diplomatici più tradizionali
ed efficaci, e che il nostro paese monitori con grande attenzione il
destino del diritti delle donne in Afghanistan, e in particolare quello
delle donne che quei diritti difendono ogni giorno.
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