Dopo quattro anni senza pena di morte, la moratoria di fatto sulle esecuzioni in Pakistan si è interrotta bruscamente giovedì scorso, quando nella città di Mianwali è stato impiccato Muhammed Hussain, militare di leva, colpevole dell’omicidio di un superiore e di altri due soldati avvenuto nel 2009.
Il tutto mentre il governo deve decidere che posizione prendere su una proposta parlamentare di legge che commuterebbe tutte le condanne a morte in ergastolo.
Zohra Yusuf, presidente della Commissione per i diritti umani del Pakistan, ha criticato l’esecuzione e la decisione del presidente Ali Zardari, che ha ratificato la condanna pur avendo il potere di commutarla.
Subito dopo l’esecuzione, il governo si è difeso precisando che
Hussain era un militare e non un civile ed era stato condannato sulla
base del codice marziale e che non c’è un’inversione di tendenza
rispetto all’orientamento del governo.
Le organizzazioni per i diritti umani hanno però espresso profonda preoccupazione.
Sanno bene, infatti, che quando si blocca un’esecuzione, quelle che
seguono hanno maggiore probabilità di essere sospese; quando il boia
riprende il lavoro, il rischio è che il ritmo delle esecuzioni acceleri.
Sebbene dal 2008 fino a giovedì non ci fossero state esecuzioni, i
giudici pakistani hanno continuato a emettere condanne. Il Pakistan ha
uno dei bracci della morte più affollati del mondo, se non il più
affollato tra quelli su cui sono disponibili dati ufficiali: 8813
persone. La pena di morte in Pakistan è prevista per una lunga serie di reati, compresi quelli di blasfemia.
Tra poche settimane, alle Nazioni Unite, verrà dibattuta e votata una
nuova risoluzione per una moratoria sulle esecuzioni. Come si
comporterà il Pakistan?
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