mercoledì 30 aprile 2014

PAKISTAN - Giornalisti sotto assedio.



Secondo un rapporto diffuso oggi da Amnesty International, dal titolo "C'è una pallottola per te", i giornalisti del Pakistan vivono sotto la costante minaccia di omicidi, intimidazioni e atti di violenza da parte di servizi segreti, partiti politici e gruppi armati come i talebani. Le autorità non fanno praticamente nulla per fermare le violazioni dei diritti umani contro gli operatori dell'informazione e per portare i responsabili di fronte alla giustizia.


Dal ritorno a un sistema democratico, nel 2008, Amnesty International ha registrato 34 casi di giornalisti assassinati a causa del loro lavoro; solo in un caso gli autori sono stati identificati e sottoposti a processi.

Ma questo è solo il dato più brutale. Nello stesso periodo, molti altri giornalisti sono stati minacciati, intimiditi, sequestrati, torturati o sono scampati a tentativi di omicidio.

"La comunità dei giornalisti del Pakistan è a tutti gli effetti sotto assedio. Soprattutto coloro che si occupano di sicurezza o di diritti umani vengono presi di mira da tutte le parti, nel tentativo di ridurli al silenzio" - ha dichiarato David Griffiths, vicedirettore del Programma Asia - Pacifico di Amnesty International.

"Le costanti minacce li pongono in una situazione impossibile, in cui ogni storia che raccontano li espone alla violenza da una parte o dall'altra".

Il rapporto odierno di Amnesty International si basa su un'ampia ricerca sul campo su oltre 70 casi e su interviste con più di 100 operatori dell'informazione. 

Numerosi giornalisti intervistati da Amnesty International hanno segnalato intimidazioni o attacchi da parte di soggetti ritenuti legati alla temuta direzione dei servizi segreti militari (Isi). Alcuni di essi hanno accettato di raccontare la loro storia sotto falso nome, mentre altre storie sono state omesse dal rapporto nel timore che neanche uno pseudonimo li avrebbe tenuti al riparo da minacce alla loro vita.

L'Isi è stata implicata in numerosi rapimenti, torture e uccisioni di giornalisti, ma nessun agente in servizio è stato mai chiamato a risponderne. Ciò ha consentito ai servizi segreti di agire al di là della legge. Le violazioni dei diritti umani ad opera dell'Isi seguono un modello ricorrente, che inizia con telefonate minatorie e prosegue con sequestri, torture e altri maltrattamenti e, in alcuni casi, l'uccisione dell'ostaggio.

I giornalisti subiscono attacchi anche da parte di attori non statali. L'agguerrita competizione per trovare spazio sugli organi d'informazione comporta che potenti esponenti politici esercitino forti pressioni per avere una copertura stampa favorevole. A Karachi, i sostenitori del Movimento muttahida qaumi e del gruppo religioso Ahle Sunnat Wal Jamaat sono accusati di atti d'intimidazione e anche omicidi nei confronti di giornalisti.
Nelle zone di conflitto del nordest del Pakistan come nella regione del Balucistan, i talebani, il gruppo armato lashkar-e-jhangvi e i gruppi armati baluci minacciano apertamente di morte i giornalisti e li attaccano quando denunciano i loro abusi o non promuovono la loro ideologia. Anche nel Punjab, i giornalisti vanno incontro a minacce da parte dei talebani e dei gruppi collegati a lashkar e-jhangvi.

Nonostante questa ondata di violenza e attacchi, le autorità pakistane hanno ampiamente mancato di assicurare alla giustizia i responsabili. Nella stragrande maggioranza dei casi su cui Amnesty International ha svolto ricerche, raramente le autorità hanno svolto indagini adeguate sulle minacce e gli attacchi o portato i responsabili in un'aula di tribunale.

Solo in una manciata di casi di alto profilo e quando l'oltraggio dell'opinione pubblica non ha reso possibile agire diversamente, le autorità hanno svolto indagini più approfondite.

"Il governo ha promesso di migliorare questa terribile situazione, anche attraverso l'istituzione di un procuratore incaricato delle indagini sugli attacchi contro i giornalisti, ma di concreto è stato fatto poco" - ha commentato Griffiths.

"Una misura determinante sarebbe quella d'indagare sulle agenzie militari e d'intelligence assicurando così i procedimenti giudiziari nei confronti dei responsabili. Coloro che prendono di mira i giornalisti saprebbero in questo modo di non poter più agire impunemente" - ha aggiunto Griffiths.

I proprietari dei mezzi d'informazione a loro volta dovrebbero assicurare formazione adeguata, sostegno e assistenza ai giornalisti, per meglio valutare e affrontare i rischi collegati al loro lavoro.

"Senza questi provvedimenti urgenti, gli operatori dell'informazione del Pakistan rischiano di essere ridotti al silenzio. Questo clima di paura ha già avuto un effetto raggelante sulla libertà d'espressione e sul più ampio tentativo di denunciare le violazioni dei diritti umani nel paese" - ha concluso Griffiths.

giovedì 24 aprile 2014

BANGLADESH - Rana Plaza disaster: The unholy alliance of business and government in Bangladesh, and around the world.

Today is the one-year anniversary of the collapse of the Rana Plaza garment factory building in Bangladesh, which left more than 1,100 workers dead and many more injured. The disaster has become the most shocking recent example of business-related human rights abuse, and the images of dead workers in the debris of the collapsed factory have become powerful symbols of the pursuit of profit at the expense of people.

The Rana Plaza building housed numerous garment factories supplying international clothing companies. Over the past year, there have been various initiatives to provide compensation to the victims, involving government, global brands, and the International Labour Organisation (ILO). However, these efforts have so far proved insufficient, and survivors continue to suffer and struggle to support themselves and their families.

One of the most shocking claims that has subsequently come to light is that workers did not want to enter the building because of safety concerns – cracks had been seen in the walls the day before and the building had been shut down. Despite this, managers ordered workers to enter the building.

Naturally, there has been much debate on the causes of the disaster, who was responsible, and how such a catastrophe could be avoided in future. Discussion has focused on the nature of global supply chains, workers’ rights and safety standards, and the huge market for cheap fashion in the West.

But one particular systemic issue has been too neglected: corporate power and the relationship between business and government.

This is a topic extensively discussed in Amnesty International’s recently published book Injustice Incorporated: Corporate Abuse and the Human Right to Remedy, and is hugely relevant when trying to understand why 1,100 garment workers needlessly lost their lives a year ago.

The high degree of political influence by the garment industry in Bangladesh is apparent. Transparency International estimates that 10 per cent of the country’s members of parliament are directly involved in the sector, including members of key committees. A recent report by New York University highlighted how the garment industry’s close relationship with government is a primary reason why labour laws are so badly enforced in Bangladesh.

Amnesty International’s own research has highlighted the pervasive problem of undue corporate influence on governments. The private sector is of course entitled to engage with governments, and can legitimately influence State policy; however, all too often business interests and profits are prioritized over human rights and can prevent victims from obtaining justice.

This is of course not limited to Bangladesh – two other cases Amnesty International has campaigned on clearly illustrate the problem of undue business influence on States.

This year also marks a significant anniversary of another major industrial disaster: it is almost 30 years since the deadly gas leak from a former Union Carbide chemical factory in Bhopal, India, that has killed more than 20,000 people left more than 500,000 survivors suffering long-term injury and disability. In 2007, it was revealed that Dow Chemical, the US company that bought Union Carbide, had sought to interfere with judicial processes through extensive high-level lobbying of the Indian Government. The company had used the promise of future investment in India to try to persuade the Government to intervene and halt ongoing legal actions against the company concerning the Bhopal legacy.

Multinational corporations can also influence the governments of countries where they are headquartered. Documents recently obtained through Freedom of Information requests have shown that the UK government was heavily lobbied by two companies, Shell and Rio Tinto, in relation to two high-profile US court cases on human rights abuses. The UK government subsequently intervened in both cases in support of the companies’ position: effectively backing the interests of UK business in avoiding liability for human rights abuses over the right of victims to seek justice.

Corporate involvement in policy-making must be transparent and legitimate, and business influence must not be allowed to grow to the point that victims are powerless to claim their rights to effective remedy. Two ways of achieving this are to greatly improve disclosure of corporate lobbying efforts and to require that State efforts to shape foreign economic and investment policies are subject to a test of their potential impacts on human rights.

As long as business continues to have a disproportionate influence on States, another Rana Plaza is not far away. Governments will be far less likely to enforce laws or preventative measures that will protect workers from human rights abuses, and, like in Bangladesh, those who have suffered the worst will be left without justice and compensation.

lunedì 21 aprile 2014

India, la Corte suprema si schiera dalla parte delle persone transgender.

india_lgbti


La sentenza emessa il 15 aprile dalla Corte suprema indiana è stata accolta con grande soddisfazione da almeno tre milioni di cittadine e cittadini e dalle organizzazioni che lottano per il rispetto dei diritti umani delle persone transgender.
La Corte suprema ha infatti stabilito che la discriminazione basata sull’identità di genere viola i diritti, garantiti dalla Costituzione, all’uguaglianza, alla libertà d’espressione, alla riservatezza, all’autonomia e alla dignità.
La Corte ha anche chiesto al governo federale e a quelli degli stati indiani di garantire il riconoscimento legale del genere cui le persone transgender sentono di appartenere: “uomo”, “donna” o “terzo genere” e di porre in essere azioni e politiche sociali in loro favore, soprattutto nel campo della scuola e del lavoro.
Questa sentenza può migliorare la vita di tantissime persone che in India, da decenni, subiscono stigma e oppressione (ne parla tra l’altro “Naleena”, un bel documentario del regista Luigi Storto).
Le organizzazioni per i diritti umani auspicano ora che la sentenza della Corte suprema spinga il nuovo parlamento che s’insedierà al termine delle elezioni ad abolire l’articolo 377 del codice penale, che considera reato le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso adulte e consenzienti.
Questo articolo non è affatto un riflesso dei valori e delle tradizioni indiane quanto un lascito giuridico dei valori morali dello stato colonizzatore, la Gran Bretagna.
Formulato infatti nel 1861 e mutuato dalla legislazione britannica dell’epoca, l’articolo 377 afferma che “chiunque abbia volontariamente relazioni carnali contro l’ordine naturale con qualsiasi uomo, donna o animale sarà punito” con pene varianti fra alcuni anni di prigione e l’ergastolo “e multato”.
Proprio la stessa Corte suprema, appena lo scorso dicembre, aveva annullato una sentenza dell’Alta corte di Delhi nel 2009, secondo la quale la messa al bando delle relazioni omosessuali tra adulti consenzienti era discriminatoria e violava i diritti all’uguaglianza, alla privacy e alla dignità stabiliti nella costituzione indiana.
L’Alta corte aveva sostenuto che la criminalizzazione dell’omosessualità aveva forzato “una parte consistente della società … a vivere la loro vita all’ombra di molestie, sfruttamento, umiliazione, trattamento crudele e degradante per mano del meccanismo di applicazione della legge”.
Ora anche la Corte suprema sembra pensarla allo stesso modo.