mercoledì 10 settembre 2014

Bangladesh, torture e sparizioni impunite.

Il Bangladesh sta attraversando una fase di crisi politica che neanche le elezioni di gennaio hanno risolto. Anzi. La Lega Awami della prima ministra Sheikh Hasina ha vinto facilmente riconfermandosi  alla guida del paese grazie alla decisione del Partito nazionalista del Bangladesh e dei suoi alleati di boicottare il voto. Durante le proteste indette dall’opposizione, sono morte oltre 100 persone la maggior parte delle quali durante violenti scontri con le forze di polizia.

Di questa crisi politica, secondo quanto riferisce un rapporto di Amnesty International, la situazione dei diritti umani risente profondamente.

Dal 2012, almeno 20 persone sono scomparse nelle mani delle forze di sicurezza (ma il numero effettivo potrebbe essere più alto): nove sono state ritrovate morte, sei sono state rilasciate dopo settimane di prigionia e di cinque non si hanno ancora notizie.

A essere chiamato in causa è il Battaglione di risposta rapida, un corpo speciale di polizia coinvolto ad aprile nel rapimento e nell’uccisione di sette uomini. Per questa vicenda, che ha destato scandalo nel paese, sono stati arrestati tre agenti ma nessuno di loro è stato finora incriminato.

La tortura resta assai diffusa. Amnesty International ha incontrato oltre 100 ex detenuti che avevano denunciato di essere stati torturati. Tra i metodi di tortura, quelli più frequenti sono le sospensioni al soffitto e le scariche elettriche sui genitali. In due casi la polizia ha sparato alle gambe dei detenuti, uno dei quali ha dovuto ricorrere all’amputazione dell’arto.

La libertà d’espressione ha conosciuto nuove limitazioni, soprattutto a causa della Legge sull’informazione e le tecnologie di comunicazione, usata massicciamente per incriminare coloro che pubblicano “informazioni diffamanti od offensive” su Internet.

Nell’ultimo anno e mezzo sono stati arrestati diversi utenti della Rete. Rilasciati su cauzione, restano in attesa del processo per aver pubblicato “commenti offensivi” sull’Islam tramite Facebook o altri social media.

Giornalisti e direttori di quotidiani subiscono una forma più sottile di repressione, dalle minacce telefoniche alle pressioni ufficiali affinché non sia dato spazio alle voci dell’opposizione politica.

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